La morte del socio di una società di persone determina, salvo diversa pattuizione, in capo ai suoi eredi un credito alla liquidazione della quota (art. 2284 c.c.).
Gli eredi, pertanto, non subentrano automaticamente nella qualità di socio, ma “acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.” (Cassazione civile , sez. II, 11 maggio 2009 , n. 10802).
La questione: cosa succede se uno solo degli eredi voglia “continuare” il rapporto sociale con i soci superstiti?
La dottrina si è interrogata circa le sorti del credito alla liquidazione, in particolare, se esso spetti agli eredi intesi nella loro totalità o si possa dividere tra i successori e se sia ammissibile un subentro pro quota degli eredi.
Secondo una risalente sentenza della Cassazione (Cass. 3758/1957), il subentro degli eredi richiederebbe il loro consenso unanime; un'altra tesi ritiene che ogni erede possa subentrare e diventare socio nei limiti della propria quota, fermo restando l'obbligo in capo alla società di liquidare la parte spettante agli altri eredi.
Quest'ultima posizione – decisamente di più ampio respiro - non tiene conto, per ragioni cronologiche, di una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. Civ., SS.UU., 24657/2007), la quale ha stabilito che i crediti in successione non si dividono automaticamente tra gli eredi, al pari dei debiti (debita ipso iure dividuntur), ma cadono in comunione ereditaria.
Alla luce di ciò, il subentro di un solo erede, in mancanza di un consenso unanime degli altri o addirittura di una divisione, rischia di porre problemi particolarmente spinosi.
Anzitutto, è d'obbligo una puntualizzazione. L'eventuale ingresso dell'erede nella società non configura una vera vicenda successoria. Con la morte, infatti, non è la partecipazione che si trasmette agli eredi, bensì il credito alla liquidazione.
Pertanto, l'ingresso dell'erede è frutto di un negozio inter vivos concluso con i soci superstiti, nel quale si verifica la compensazione tra le somme dovute a titolo di conferimento e il credito alla liquidazione.
Ora, alla luce della caduta in comunione ereditaria del credito alla liquidazione, malgrado la comoda divisibilità del credito, l'erede è titolare di esso solo pro quota e, secondo le regole generali della divisione ereditaria, ogni atto di disposizione di beni in costanza di comunione ereditaria si considera effettuato “all'esito divisionale”. In buona sostanza, il coerede dispone di un bene sotto la condizione sospensiva che esso gli venga assegnato in sede di divisione.
Per questo, mi chiedo se sia possibile realizzare il subingresso direttamente mediante compensazione o se non sia necessario, in mancanza di un consenso unanime, uno stralcio divisionale relativo alle sole somme ottenute allo scopo di liquidare il credito agli eredi. Fatto ciò, l'erede potrebbe utilizzare la somma percepita per entrare in società.
Le norme in tema di comunione prevedono che gli atti di disposizione dei beni in comproprietà richiedano il consenso di tutti i partecipanti (art. 1108, comma 3, c.c.). Tuttavia, l'imposizione della regola dell'unanimità potrebbe penalizzare ingiustamente l'interesse della società e il diritto dell'erede a farne parte.
Si dia il caso di una società composta di soli due soci. Se uno di essi morisse e l'ingresso di un erede richiedesse l'unanimità dei partecipanti alla comunione ereditaria, la società si troverebbe a rischio di scioglimento (per mancanza della pluralità dei soci) per una mera presa di posizione degli altri eredi.
Pertanto, di fronte ad una scelta a tal punto paralizzante, la salvaguardia delle dinamiche societarie impone una soluzione più permissiva.
Ferma restando la caduta in comunione ereditaria, la dottrina, ancor prima della pronuncia di legittimità del 2007, ha ritenuto che nella sua fase esecutiva (cioè quando si realizza il subentro dell'erede e la compensazione tra il credito derivante dalla liquidazione e il debito da conferimento) il credito si scinda, in ossequio al principio del favor societatis, e che ciascun erede possa “subentrare” autonomamente nel rapporto sociale.
Al medesimo risultato giungono anche le Sezioni Unite, nel momento in cui escludono la necessità del litisconsorzio di tutti i coeredi nell'azione promossa contro il debitore, sia per l'intero credito sia per la parte corrispondente alla quota di spettanza dell'erede.
In sostanza, se uno degli eredi chiede il pagamento della propria quota di liquidazione (per poi subentrare la società), non è necessario a tal fine l'intervento di tutti i coeredi. Malgrado ciò, il pagamento effettuato dal debitore, anche tramite compensazione, non ha effetti nei rapporti interni tra i coeredi, che saranno pertanto definiti in sede divisoria.
Gli eredi, pertanto, non subentrano automaticamente nella qualità di socio, ma “acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.” (Cassazione civile , sez. II, 11 maggio 2009 , n. 10802).
La questione: cosa succede se uno solo degli eredi voglia “continuare” il rapporto sociale con i soci superstiti?
La dottrina si è interrogata circa le sorti del credito alla liquidazione, in particolare, se esso spetti agli eredi intesi nella loro totalità o si possa dividere tra i successori e se sia ammissibile un subentro pro quota degli eredi.
Secondo una risalente sentenza della Cassazione (Cass. 3758/1957), il subentro degli eredi richiederebbe il loro consenso unanime; un'altra tesi ritiene che ogni erede possa subentrare e diventare socio nei limiti della propria quota, fermo restando l'obbligo in capo alla società di liquidare la parte spettante agli altri eredi.
Quest'ultima posizione – decisamente di più ampio respiro - non tiene conto, per ragioni cronologiche, di una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. Civ., SS.UU., 24657/2007), la quale ha stabilito che i crediti in successione non si dividono automaticamente tra gli eredi, al pari dei debiti (debita ipso iure dividuntur), ma cadono in comunione ereditaria.
Alla luce di ciò, il subentro di un solo erede, in mancanza di un consenso unanime degli altri o addirittura di una divisione, rischia di porre problemi particolarmente spinosi.
Anzitutto, è d'obbligo una puntualizzazione. L'eventuale ingresso dell'erede nella società non configura una vera vicenda successoria. Con la morte, infatti, non è la partecipazione che si trasmette agli eredi, bensì il credito alla liquidazione.
Pertanto, l'ingresso dell'erede è frutto di un negozio inter vivos concluso con i soci superstiti, nel quale si verifica la compensazione tra le somme dovute a titolo di conferimento e il credito alla liquidazione.
Ora, alla luce della caduta in comunione ereditaria del credito alla liquidazione, malgrado la comoda divisibilità del credito, l'erede è titolare di esso solo pro quota e, secondo le regole generali della divisione ereditaria, ogni atto di disposizione di beni in costanza di comunione ereditaria si considera effettuato “all'esito divisionale”. In buona sostanza, il coerede dispone di un bene sotto la condizione sospensiva che esso gli venga assegnato in sede di divisione.
Per questo, mi chiedo se sia possibile realizzare il subingresso direttamente mediante compensazione o se non sia necessario, in mancanza di un consenso unanime, uno stralcio divisionale relativo alle sole somme ottenute allo scopo di liquidare il credito agli eredi. Fatto ciò, l'erede potrebbe utilizzare la somma percepita per entrare in società.
Le norme in tema di comunione prevedono che gli atti di disposizione dei beni in comproprietà richiedano il consenso di tutti i partecipanti (art. 1108, comma 3, c.c.). Tuttavia, l'imposizione della regola dell'unanimità potrebbe penalizzare ingiustamente l'interesse della società e il diritto dell'erede a farne parte.
Si dia il caso di una società composta di soli due soci. Se uno di essi morisse e l'ingresso di un erede richiedesse l'unanimità dei partecipanti alla comunione ereditaria, la società si troverebbe a rischio di scioglimento (per mancanza della pluralità dei soci) per una mera presa di posizione degli altri eredi.
Pertanto, di fronte ad una scelta a tal punto paralizzante, la salvaguardia delle dinamiche societarie impone una soluzione più permissiva.
Ferma restando la caduta in comunione ereditaria, la dottrina, ancor prima della pronuncia di legittimità del 2007, ha ritenuto che nella sua fase esecutiva (cioè quando si realizza il subentro dell'erede e la compensazione tra il credito derivante dalla liquidazione e il debito da conferimento) il credito si scinda, in ossequio al principio del favor societatis, e che ciascun erede possa “subentrare” autonomamente nel rapporto sociale.
Al medesimo risultato giungono anche le Sezioni Unite, nel momento in cui escludono la necessità del litisconsorzio di tutti i coeredi nell'azione promossa contro il debitore, sia per l'intero credito sia per la parte corrispondente alla quota di spettanza dell'erede.
In sostanza, se uno degli eredi chiede il pagamento della propria quota di liquidazione (per poi subentrare la società), non è necessario a tal fine l'intervento di tutti i coeredi. Malgrado ciò, il pagamento effettuato dal debitore, anche tramite compensazione, non ha effetti nei rapporti interni tra i coeredi, che saranno pertanto definiti in sede divisoria.
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