19 giugno 2010

Il principio di correttezza in materia societaria

L'art. 1175 c.c. impone, in materia di obbligazioni, tanto al debitore quanto al creditore di comportarsi secondo le regole della buona fede.
Questo principio, detto della buona fede oggettiva (o correttezza), costituisce una specificazione del dovere di solidarietà sociale (cfr. art. 2 Cost.) e si manifesta come "l'obbligo gravante su ciascun soggetto del rapporto obbligatori di salvaguardare l'utilità dell'altro nei limiti in cui ciò non determini un apprezzabile sacrificio" (si veda in proposito, la suggestiva ricostruzione di Bianca).

In sostanza, l'ordinamento, oltre alle tutele previste dalla disciplina legale, salvaguarda gli interessi sottesi al rapporto anche laddove questi siano sprovvisti di una specifica tutela giuridica, affidandone il compito ai medesimi soggetti che di essi sono portatori.

La derivazione costituzionale del principio consente di estenderne la portata anche al di fuori dell'ambito delle obbligazioni e dei contratti, di modo che la correttezza diventa un "dovere legale che si esplica in ogni rapporto civile" e che "si atteggia in termini di modalità di comportamento e non di determinazione di contenuti dei comportamenti" (cfr. DiSabato). Come è stato autorevolmente affermato, il dovere di solidarietà è ormai uscito dalle maglie del contratto per caratterizzare il cd. contratto sociale.

La traslazione in materia societaria del principio inteso nella sua portata più generale ha richiesto, in assenza di una formulazione normativa, un lavoro interpretativo della giurisprudenza, come si può vedere dalla massima che segue:

Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 1994, n. 11017: "La consapevole e fraudolenta attività del socio di maggioranza volta al perseguimento dell'unico fine di trarre un vantaggio personale a danno degli altri azionisti si concreta nella inosservanza dell'obbligo di fedeltà allo scopo sociale o del dovere di correttezza e buona fede e rende, perciò, annullabile la delibera adottata con il voto determinante del predetto socio solo se questo, attraverso l'approvazione della delibera, abbia perseguito il fine unico di realizzare il proprio utile, con danno per i soci di minoranza e senza vantaggio per l'interesse sociale."
- Il socio che fraudolentemente persegue la propria utilità in danno degli altri e senza vantaggio per la società non agisce in eccesso di potere, ma compie un atto di infedeltà allo scopo sociale;
- Vantaggio proprio + danno alla minoranza + carenza di interesse sociale --> Annullamento della delibera assembleare viziata.
L'affermazione di un criterio di condotta legale svincolato dalla matrice contrattuale, pertanto, consente non solo di sanzionare l'operato infedele del socio, ma soprattutto di incidere pesantemente sulla validità delle decisioni assunte in conseguenza di quella condotta.
Come afferma DiSabato, dunque, "la violazione della regola di buona fede non ha attitudine soltanto a fungere come regola di comportamento (la cui violazione comporta una tutela soltanto risarcitoria), ma anche come regola di validità, idonea a dare al soggetto danneggiato, con l'annullamento dell'atto compiuto in violazione di essa, tutela reale".
(Il tema delle interferenze tra regole di comportamento e regole di validità è stato di recente affrontato, in maniera differente rispetto a quanto affermato, da Cass. civ., SS. UU., 19 Dic 2007 n. 26724, la quale, in materia di contratti con gli intermediari finanziari, ha stabilito che "ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità")

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