4 gennaio 2010

HOLDINGS - PARTE SECONDA: è ammissibile una holding individuale?

Nel post precedente abbiamo stabilito che le holdings, siano esse pure o operative, sono imprenditori. A questo punto rimane da chiedersi se l'attività di acquisto e gestione di partecipazioni di controllo possa essere esercitata da una persona fisica.
Non si tratta - evidentemente - del caso in cui le azioni della holding siano detenute da un unico soggetto (società unipersonale), ma dell'ipotesi in cui lo schermo societario manchi del tutto, di modo che l'attività imprenditoriale sia svolta direttamente dalla persona fisica.

La questione dell'ammissibilità della holding individuale non deriva, in realtà, da una presunta incompatibilità tra la particolarità dell'attività imprenditoriale e lo svolgimento individuale di essa. Del resto, non esiste alcuna imposizione legislativa in merito alla natura del soggetto che deve esercitare l'impresa-holding, come ad esempio accade per l'attività bancaria.
Il dubbio, dunque, si pone per la difficoltà di ravvisare un'attività organizzata e professionale nella serie di atti, compiuti dalla persona fisica, volti all'acquisto e alla gestione di partecipazioni di controllo.
In buona sostanza, il punto è quello di stabilire il limite oltre il quale l'azionista di riferimento diventa imprenditore-holding.
A parte la difficoltà concreta, nel momento in cui si accerti la sussistenza di tutti i requisiti richiesti dall'art. 2082 c.c., la persona fisica che eserciti attività di holding deve essere qualificata imprenditore (Campobasso, Ferrara-Corsi).
In dottrina, tale conclusione è stata tutt'altro che pacifica fino agli anni '90, quando la nota sentenza Caltagirone (Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439) ha stabilito che "In ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima." (Massima JurisData Giuffrè)
Ancora, la stessa sentenza ha puntualizzato che "L'attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese cui sia funzionalizzato l'esercizio dei poteri derivanti dal possesso di uno o più pacchetti azionari, sia essa svolta da una società di capitali, da una persona fisica o da una società di fatto, determina l'acquisto della qualità di imprenditore in capo a chi la eserciti qualora, oltre ad essere qualificata dai requisiti usualmente intesi dell'"organizzazione" e della "professionalità", la stessa sia posta in essere in nome dell'esercente e risulti astrattamente idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell'opera di coordinamento." (Massima JurisData Giuffrè)

2 gennaio 2010

HOLDINGS - PARTE PRIMA: La holding è un imprenditore?

Uno dei requisiti richiesti dall'art. 2082 c.c. per l'attribuzione della qualifica di imprenditore è lo svolgimento di un'attività economica produttiva. Se per economicità si intende il perseguimento di una finalità produttiva secondo un metodo economico (copertura dei costi tramite i ricavi), il carattere produttivo dell'attività si deve ravvisare non solo nella trasformazione di materie prime volta alla realizzazione di un risultato nuovo e diverso, ma, in generale, in ogni attività che, mediante il compimento di una serie di atti coordinati volti all'impiego organizzato dei fattori produttivi, realizzi la produzione di ricchezza, a prescindere dalla natura del bene o del servizio offerto. Per questo motivo, si esclude unanimemente l'impresa laddove l'attività sia volta al mero godimento o alla semplice amministrazione dei beni.
In quest'ottica, si è a lungo discusso circa l'attribuzione del carattere imprenditoriale, nel senso sopra inteso, all'attività delle cd. holdings. Secondo la definizione di Campobasso, la holding è una società che ha “per oggetto esclusivo l'acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società, con finalità di direzione, di coordinamento e di finanziamento della loro attività”. In buona sostanza, ci si chiede se l'attività della holding, sia essa pura (acquisto e gestione di partecipazioni di controllo) o operativa (direzione, coordinamento e finanziamento dell'attività delle partecipate), presenti i requisiti per l'attribuzione della qualifica di imprenditore.
Sul punto, la dottrina ha tentato in diversi modi di dare risposta positiva al quesito.
1.teoria della finzione di Galgano → esercizio mediato e indiretto di attività imprenditoriale: la holding è impresa perchè, per effetto di una finzione giuridica, il suo oggetto sociale viene a coincidere con quello delle società partecipate;
2.teoria caso “Caltagirone”: la holding è impresa perchè produce servizi di direzione e coordinamento;
3.teoria dell'impresa ausiliaria di Savi: la holding è impresa perchè la sua attività è ausiliaria, ai sensi dell'art. 2195, n. 5 c.c., a quella svolta dalle partecipate;
4.teoria della società di investimento di Zanelli.
A prescindere dalla teoria che si ritiene di condividere, oggi è pacifico, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l'attività svolta dalla holding individui un'attività imprenditoriale, in quanto esercizio professionale e organizzato della funzione di direzione e controllo delle società partecipate (Ferrara-Corsi) accompagnato dallo svolgimento di una indispensabile funzione capitalistica (azionista di riferimento).

15 dicembre 2009

Aspettando il Codice dell'Agricoltura

Apprendo, con un certo interesse, la notizia di un imminente riordino del quadro legislativo in tema di agricoltura. E' atteso per febbraio un codice organico, composto di 155 articoli, che si propone, nelle intenzioni dei compilatori, di diventare una sorta di vademecum, un "manuale tascabile per i contadini, facilmente consultabile, snello e scritto con un linguaggio comprensibile: una vera e propria rivoluzione".
Nella conferenza stampa dello scorso 11 dicembre, il Ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, ha così illustrato le novità del provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri:

"Sono orgoglioso di poter presentare questo 'Codice' che permetterà ad ogni operatore del settore di dominare con uno "sguardo" l'intera materia agricola. Finora il quadro legislativo dell'agricoltura italiana era diviso in un corpo normativo che, sedimentandosi negli anni, si era fatto particolarmente corposo ma privo di una sua organicità e compattezza. Si pensi che la materia per ora è dispersa tra il Codice Civile, leggi speciali e in alcuni commi di leggi finanziarie."

Il Codice dell'Agricoltura, di cui è possibile leggere qui la relazione illustrativa, inquadrerà:

- l'attività agricola e, quindi, le figure degli imprenditori agricoli e delle loro attività, compresa la vendita dei prodotti agricoli;

- le società agricole;

- i contratti agrari;

- le coltivazioni OGM;

- la creazione di aziende agricole, anche attraverso l'acquisizione della terra per successione o per prelazione.

In attesa del testo preliminare e convinta dell'opportunità di questo riordino, mi viene spontanea una considerazione. Se si è in presenza di un settore economico di tale complessità da richiedere un codice ad hoc, perchè ostinarsi anacronisticamente ad escludere dal fallimento l'impresa agricola?