19 marzo 2010

La capacità di succedere per testamento del figlio adottivo di persona vivente al tempo dell’apertura della successione

In occasione della festa del papà (!), ripropongo un articolo che ho pubblicato qualche tempo fa su Altalex.

...quando i figli non so piezz e' core...

La capacità di succedere per testamento del figlio adottivo di persona vivente al tempo dell’apertura della successione: residui di ineguaglianza nel codice civile

Sommario: La capacità in generale - Capacità giuridica - Capacità d’agire - La “capacità” del non nato - Il problema del figlio adottivo

La capacità in generale
Per tradizionale insegnamento, il concetto di individuo implica necessariamente quello di capacità. Capacità intesa come conquista giuridica, come parametro dell’evoluzione di un ordinamento, come attributo della persona o, meglio ancora, come carattere fondamentale della persona. Concetti, questi, che si apprendono sin dai primi approcci con il diritto e che rivestono un ruolo chiave nella strutturazione e nella comprensione del nostro ordinamento giuridico.

Il ruolo – ideologico e giuridico – della capacità si cristallizza, tuttavia, in due sole norme del codice civile, gli articoli 1 e 2. Ma chi ben conosce il nostro sistema positivo non ha difficoltà nell’affermare che l’intera materia privatistica risulta permeata da tale concetto, al punto che si è autorevolmente sostenuto che l’impianto del codice civile sia di natura personalistica. La persona, dunque, si pone come fulcro di un ordinamento che su di essa si fonda e che in funzione di essa si evolve.

La disciplina della capacità, pertanto, prende solo avvio dalle due norme di apertura del codice, che pur definendola semplicemente nelle sue manifestazioni giuridiche, la impongono nell’ordinamento come diretta promanazione del principio di uguaglianza, quasi fosse una sorta di dictat imprescindibile del nostro sistema positivo. Essa, poi, si arricchisce sfogliando le pagine del codice civile, manifestandosi come archetipo di ogni espressione giuridica del soggetto(1).

Capacità giuridica
Come giustamente affermato, “l’individuo, quale entità psico-fisica che vive nel mondo sociale, dà vita all’ordinamento giuridico, ma da esso è poi qualificato, quale soggetto di diritto, con il collegamento automatico tra capacità giuridica e nascita”(2). L’art. 1 del codice civile, infatti, attribuisce a qualsiasi individuo, per il “semplice” fatto di esser venuto al mondo, la capacità giuridica (intesa come l’idoneità ad essere titolare di diritti e obblighi(3)) e ne subordina l’acquisto al momento della nascita (art. 1, II co., c.c.)(4). Ciò vuol dire che, dal momento stesso in cui viene al mondo, la persona fisica si manifesta come attore nella realtà giuridica(5), in quanto dotata di una “qualità astratta e a priori di carattere generale, che coincide con la soggettività”(6) che lo rende “potenzialmente destinatario di tutte le norme dell’ordinamento”(7).


Capacità d’agire
Capacità giuridica, però, significa che l’uomo esiste giuridicamente, non che esso sia capace di incidere autonomamente sulla propria sfera giuridica. Tale ulteriore capacità, detta capacità d’agire, si acquista, per espressa previsione dell’art. 2 c.c., con la maggiore età.

La capacità d’agire, quindi, si lega al momento fattivo della personalità, al comportamento, alle manifestazioni esterne dell’esistenza giuridica del soggetto. Un’attitudine, questa, che non può essere qualificata come qualità generale del soggetto(8) né come suo requisito essenziale, anzitutto perché essa, in situazioni patologiche(9), potrebbe anche non essere mai acquistata dal soggetto, quanto poi per il fatto che essa risulta attribuita dalla legge, che presume raggiunta, con la maggiore età, un’adeguata maturità del soggetto, che gli consente di agire in piena autonomia nella realtà giuridica.

Ad ulteriore riprova della profonda differenza tra le due capacità, si deve considerare, altresì, quanto variegata risulti l’entità dell’incapacità d’agire per esempio del minore, dell’emancipato, dell’interdetto, dell’inabilitato, del fallito, del beneficiario di amministrazione di sostegno. A ciò si aggiunga la previsione legislativa di determinate capacità in capo al soggetto, pur legalmente incapace per minore età, quale quella di contrarre matrimonio, di riconoscere il figlio, di svolgere attività lavorativa.

Un quadro, quindi, estremamente poliedrico, che evidenzia appunto l’impossibilità di attribuire alla capacità d’agire connotati analoghi a quelli della capacità giuridica, la quale, proprio per il suo carattere universale e per l’importante substrato ideologico, non può che configurarsi come valore fondante la persona stessa.

Il soggetto incapace necessita, dunque, dell’intervento - più o meno incisivo a seconda dell’entità dell’incapacità - di un soggetto che lo possa sostituire o coadiuvare nella gestione dei suoi interessi.

Il quadro così tracciato – seppur sommariamente – vede una singolare eccezione in ambito successorio, laddove si registra una particolare capacità in capo al nascituro, ovvero quella di ricevere per testamento, stabilita dall’articolo 462 c.c..

In realtà, tale previsione del codice civile, lungi dal costituire una deroga al regime legale della capacità di agire, prevede semplicemente che il figlio concepito di persona vivente al tempo dell’apertura della successione possa essere destinatario di disposizioni testamentarie, subordinando, pertanto, il perfezionamento della fattispecie attributiva al momento della nascita. In sostanza, ciò che si riconosce al concepito non è, dunque, un’eccezionale capacità, ma piuttosto “taluni diritti a carattere patrimoniale”10, che ricevono dall’ordinamento una tutela preliminare, finalizzata alla conservazione della situazione di aspettativa in vista del suo perfezionamento, che si realizzerà, poi, con la nascita.

Si tratta, dunque, di una fattispecie a formazione progressiva che, proprio alla luce del limite dettato dalla norma dell’art. 1, non può che completarsi con la venuta ad esistenza del soggetto. Prima di allora, così come non vi è soggetto, parimenti non vi è un diritto.

La “capacità” del non nato
Meritevole di attenzione è, poi, la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 462, la quale prevede che anche il figlio non concepito di persona vivente al momento dell’apertura della successione possa ricevere per testamento. Una fattispecie, questa, alquanto singolare, dal momento che sembrerebbe creare un centro di diritti – o meglio un centro di aspettativa di diritto – nella completa assenza di soggetto. Se, infatti, nella prima ipotesi non vi è ancora una persona, atteso che la creatura concepita non è che una persona in potenza, nel caso de quo tale potenzialità difetta completamente, dal momento che è lo stesso concepimento ad essere futuro ed eventuale.

Alcuni autori hanno sostenuto che l’intento legislativo sia stato quello di equiparare la situazione del concepito e del non concepito sul piano della capacità di ricevere per testamento, sebbene le due fattispecie siano ontologicamente differenti.

In realtà, tale ricostruzione non può essere accolta, come sostiene quella parte della dottrina(11) che vede nella fattispecie dell’art. 1 c.c., cui fa da corollario quella del 462, una norma scritta per i soli nascituri concepiti. Si deve ritenere, pertanto, che “la norma opera una differenziazione tra le due categorie di nascituri, i concepiti e i non concepiti, riservando soltanto ai primi, considerati probabilmente nella loro essenza di spes homini, la possibilità di un’acquisizione di diritti subordinatamente alla nascita”(12).

Alla luce di ciò, la previsione dell’ultimo comma, non può che essere letta nel senso di norma eccezionale, caratterizzata da una struttura condizionata e volontaria, in quanto rimessa alla volizione del testatore.

La conseguenza di siffatta ricostruzione risiede, dunque, nel fatto che solo al nascituro concepito si addice una fattispecie in itinere, che trova una tutela preliminare alla nascita, ma che subordina comunque ad essa il suo perfezionarsi. E questo assunto troverebbe conferma nella considerazione che “soltanto per i concepiti sono previsti nel sistema diritti riconducibili alla legge e non alla volontà di un soggetto (testatore o donante)”(13).

Fatta questa premessa, è ragionevole pensare che la previsione dell’ultimo comma del 462 non sia una mera puntualizzazione del legislatore, ma piuttosto la precisa volontà di includere nel quadro normativo un soggetto (laddove il termine è volutamente improprio e atecnico), quale il nascituro non concepito, che altrimenti non vi sarebbe rientrato(14).

Il problema del figlio adottivo
Mettendo momentaneamente da parte queste considerazioni squisitamente dommatiche, preme sottolineare un aspetto per così dire pratico della norma. E’ a questo punto che si innesta il tema che si vuole trattare, dal momento che la formulazione della norma lascia intendere che i figli che saranno adottati dalla stessa persona vivente non siano contemplati. Ci si pone, infatti, il dubbio se la locuzione “figli non concepiti” di cui all’ultimo comma dell’art. 462, possa ritenersi estensivamente applicabile anche ai figli che, sebbene non concepiti, saranno adottati dalla persona.

Lungi dal trattarsi di un mero esercizio di pensiero, il tema risulta di scottante attualità, sebbene sembri ignorato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, specie da quella costituzionale. Ciò che si prospetta, infatti, è che la norma sia passibile di sindacato di costituzionalità laddove non si ammetta siffatta estensione(15).

Il tema ha lasciato la dottrina divisa tra coloro che ritengono ammissibile l’estensione sulla base di una pretesa “identità di ratio”(16) tra le due fattispecie e quanti, al contrario, negano l’equiparazione alla luce di due convincenti motivazioni.

Volendo condurre il discorso su un binario prettamente civilistico, tralasciando cioè temporaneamente ogni considerazione di natura costituzionalistica, esistono diversi argomenti che fanno pensare alla necessità di una stretta interpretazione della norma de qua.

Anzitutto, come già detto supra, si deve osservare che la previsione di una deviazione dalle regole in tema di capacità giuridica nell’ambito della successione testamentaria si configura come disposizione di carattere eccezionale e, quindi, di strettissima applicazione(17). L’inciso “non concepiti” sembra, infatti, escludere qualsivoglia estensione del concetto biologico di filiazione. Eppure, da ciò non si può trarre la certezza di una volontà legislativa nel senso della esclusione dei figli adottivi, sebbene l’utilizzazione delle tecniche interpretative e, in particolare, dell’argumentum e contrario(18) farebbero pensare proprio alla strada più restrittiva.

È noto, infatti, che ubi lex voluit dixit, ubi non voluit tacuit. Pertanto, nel caso di specie, non si potrebbe tentare una lettura estensiva della norma, né, a fortiori, una analogica, stante l’eccezionalità della statuizione normativa. Tuttavia, ragioni di opportunità e di sopravvivenza della norma stessa, atteso anche il rischio di illegittimità costituzionale, deporrebbero per una diversa ricostruzione, in virtù della quale la mancata inserzione di siffatto riferimento parrebbe più una dimenticanza che un’espressa preclusione, probabilmente dettata anche dal contesto storico-culturale in cui nasceva la disposizione codicistica.

L’altro argomento, sicuramente più spinoso da superare, è quello sistematico, che escluderebbe l’estensione dell’eccezionale capacità di succedere per testamento alla luce del combinato disposto dell’articolo di cui si tratta e della fattispecie dell’art. 631 c.c., in virtù della quale non è ammissibile che la scelta del beneficiario di un lascito testamentario sia effettuata da persona terza rispetto al testatore. Nel caso di specie, infatti, pur a voler ammettere l’ammissibilità dell’estensione, di fatto si verrebbe a creare il caso – palesemente contrario alla legge - di una disposizione mortis causa il cui beneficiario viene individuato dall’adottante(19).

Se ciò è pacifico nel caso di adozione di persone maggiori di età, laddove il profilo della scelta da parte dell’adottante è di manifesta evidenza, il dubbio permane nel caso di adozione del minore.

Il dato ermeneutico, dunque, non offre margini di soluzione alla questione, atteso che sia l’argomento letterale che quello sistematico appaiono solidi ed incontestabili.

Senza dubbio, il discorso vede aperture in senso positivo laddove ci si muova sul terreno costituzionale. Il tema della totale equiparazione tra figli biologici e figli adottivi è, infatti, squisitamente costituzionalistico, atteso che una mancata applicazione di quello che è ormai un assioma giuridico confliggerebbe con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost..

È noto, infatti, che la legge equipari a tutti gli effetti di legge il figlio adottivo a quello biologico legittimo, così come si legge nell’art. 27, L. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione dei minori. L’adottato, per effetto della sentenza di adozione, diventa figlio legittimo degli adottanti, ne riceve e trasmette il cognome e recide ogni rapporto con la famiglia di origine, fatta eccezione per i divieti matrimoniali.

Alla luce di tale norma, la preclusione riguardante gli adottati in tema di successione testamentaria risulta, oltre che iniqua, del tutto arbitraria, in quanto determina una assurda discriminazione tra i figli di una stessa persona. Si potrebbe, infatti, verificare il caso di una disposizione testamentaria a favore dei figli non concepiti di una persona vivente, la quale successivamente adotta un minore e, nello stesso tempo, genera un figlio biologicamente. In tale situazione, si manifesta appieno il limite di una mancata estensione della fattispecie ai figli adottivi, sebbene l’argomento del 631 sia difficilmente superabile.

La questione, poi, si complica nel momento in cui si affronta il tema sul piano notarile e si ipotizza il caso di un notaio chiamato a ricevere un testamento pubblico contenente una disposizione a beneficio di eventuali figli, anche adottivi, di persona vivente all’apertura della successione.

Il professionista si troverà, infatti, di fronte al dubbio di ammettere una previsione testamentaria di siffatto tenore, atteso che, alla luce di quanto dianzi esposto, incorrerebbe nel rischio di includere nella scheda testamentaria una disposizione in incertam personam.

Uno spiraglio sembra profilarsi allorché si osservi che la norma dell’art. 536, II co., c.c., sulla scia della sopraccitata legge sull’adozione, equipara i figli adottivi a quelli legittimi.

Un’interpretazione volta ad escludere tale – pacifico – assunto sarebbe, pertanto, contraria sia al dato sistematico che, come è noto, si pone come cardine nell’attività ermeneutica del codice civile, sia a quella regola della teoria dell’interpretazione che impone di leggere le norme in modo tale che abbiano senso, in ossequio al principio di conservazione del contratto.

Ora, è evidente che il testamento non sia un contratto, ma piuttosto un negozio, ma nulla osta a che tali regole trovino applicazione all’affine ambito negoziale.

Alla luce di quanto detto, tuttavia, sembra non potersi pervenire ad una soluzione definitiva. Entrambe le strade profilate, per quanto suggestive e fondate su argomenti difficilmente superabili, espongono l’interprete e ancor più il professionista del diritto al rischio, nell’un caso, della censura di cui all’art. 631 e, nell’altro, dell’incostituzionalità della disposizione.

Quid iuris?

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1 GAZZONI, Manuale di diritto privato. Napoli, 2006, nell’introduzione all’opera parla appunto del diritto privato come di diritto dell’uomo che addirittura con l’uomo stesso si identifica.

2 Così autorevolmente RESCIGNO, Capacità giuridica, in Digesto, 4^ ed., 1, citato da GAZZONI, cit., 121.

3 La definizione, condivisa dalla dottrina maggioritaria, si ritrova in RESCIGNO, cit., 1; BIANCA, La norma giuridica. I soggetti. Milano, 2000, 213; TORRENTE, Manuale di diritto privato. Milano, 1999, 58.

4 La fattispecie prevista dall’art. 1 c.c. è stata ricostruita dalla dottrina o come fattispecie condizionata o come fattispecie a formazione progressiva. Per un quadro sintetico del tema si vedano, nel primo senso, la Relazione della Commissione Parlamentare al I libro del codice civile. Roma, 1937, 734; Cass. 1 agosto 1958, n. 2844, in Foro it. Mass., 1958, 58; CARNELUTTI, Nuovo profilo dell’istituzione dei nascituri, in Foro pad., 1954, IV, 57 e ss.; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale. Milano, 1959, I, 216. Quanto alla seconda ricostruzione si vedano SANTORO-PASSARELLI, Su un nuovo profilo dell’istituzione dei nascituri, in Foro pad., 1954, III, 65; COVIELLO, Capacità di succedere a causa di morte, in Enc. Dir., vol. VI. Milano, 1960, IV, 54-72. Tutti citati da TRINCHILLO, Riflessioni sui nascituri e sull’articolo 715 c.c., in Riv. not., 2000, III, pt. 1, 621-638.

5 E’ questo il perno della teria cd. Organica, che appunto assegna questo ruolo portante alla persona nell’ordinamento, contrariamente alla teoria normativa di Kelsen, che prescinde dal soggetto nel mondo del diritto. Fa cenno a siffatte ricostruzioni GAZZONI, cit., 121.

6 FALZEA, Capacità, in Enc. Dir., VI, 10.

7 GAZZONI, cit., 121.

8 Cfr. STANZIONE, Capacità, in Enc. Giur. Treccani, V, 7, riporta l’idea del Falzea.

9 Cfr. art. 416 c.c., il quale consente di presentare istanza di interdizione nell’ultimo anno di minore età del soggetto.

10 Così GAZZONI, cit., 122.

11 Si veda per tutti TRINCHILLO, cit.. Contra, Commento all’art. 1 c.c., in Commentario breve al codice civile, a cura di G. Cian e A. Trabucchi. Padova, 2007, 65, in cui si propone una lettura della norma volta ad equiparare i concepiti ai non concepiti, anche nelle altre disposizioni che li contemplano. Nello steso senso sembrerebbe CAPOZZI, cit., 106.

12 Così TRINCHILLO, cit..

13 Così chiaramente TRINCHILLO, cit..

14 In questa sede si è volutamente preferito fare solo un cenno a questa interessante ricostruzione della eccezionale capacità del nascituro, per evitare di deviare dal tema principale del contributo. Tuttavia, per approfondire, si veda TRINCHILLO, cit..

15 Per una panoramica completa per quanto succinta della questione si veda CAPOZZI, Successioni e donazioni. Milano, 2002, 116.

16 CAPOZZI, cit., 113, riferisce che la tesi estensiva viene sostenuta da GIANNATTASIO, Delle successioni. Disposizioni in generale. Successioni legittime, in Comm. Cod. civ., Torino, 1971, 53; MESSINEO, cit., 44; GROSSO, BURDESE, Le successioni. Parte generale. Torino, 1977, 108; GANGI, La successione testamentaria. Milano, 1952, 292. Al contrario, la tesi negativa, sostenuta dallo stesso CAPOZZI, raccoglie il consenso di CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale. Milano, 1961, 80 ss.; FERRI, Successioni in generale, artt. 456-511, in Comm. Cod. civ. a cura di Scialoja-Branca. Bologna, 1970, 147-148; AZZARITI, MARTINEZ, Successioni a causa di mote e donazioni. Padova, 1979, 27; COVIELLO L. jr., Capacità di succedere a causa di morte, in Enc. Giur., VI. Milano, 1960, 126 ss..

17 Così si legge nel commento all’art. 1 del codice civile in Commentario breve al codice civile, diretto da G. Cian e A. Trabucchi. Padova, 2007, 65. Vds. anche Cass. 3467/73.

18 Per un puntuale riferimento all’argomento interpretativo cui si fa cenno nel testo si veda F. MODUGNO, Appunti per una teoria dell’interpretazione. Torino, 1997, ….

19 CARRESI, Nascituri, in Noviss. Dig. It., XI. Torino, 1965, 16 ss..

5 marzo 2010

La morte del socio e l'ingresso di uno dei suoi eredi nella società di persone

La morte del socio di una società di persone determina, salvo diversa pattuizione, in capo ai suoi eredi un credito alla liquidazione della quota (art. 2284 c.c.).
Gli eredi, pertanto, non subentrano automaticamente nella qualità di socio, ma “acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.” (Cassazione civile , sez. II, 11 maggio 2009 , n. 10802).

La questione: cosa succede se uno solo degli eredi voglia “continuare” il rapporto sociale con i soci superstiti?

La dottrina si è interrogata circa le sorti del credito alla liquidazione, in particolare, se esso spetti agli eredi intesi nella loro totalità o si possa dividere tra i successori e se sia ammissibile un subentro pro quota degli eredi.

Secondo una risalente sentenza della Cassazione (Cass. 3758/1957), il subentro degli eredi richiederebbe il loro consenso unanime; un'altra tesi ritiene che ogni erede possa subentrare e diventare socio nei limiti della propria quota, fermo restando l'obbligo in capo alla società di liquidare la parte spettante agli altri eredi.

Quest'ultima posizione – decisamente di più ampio respiro - non tiene conto, per ragioni cronologiche, di una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. Civ., SS.UU., 24657/2007), la quale ha stabilito che i crediti in successione non si dividono automaticamente tra gli eredi, al pari dei debiti (debita ipso iure dividuntur), ma cadono in comunione ereditaria.

Alla luce di ciò, il subentro di un solo erede, in mancanza di un consenso unanime degli altri o addirittura di una divisione, rischia di porre problemi particolarmente spinosi.

Anzitutto, è d'obbligo una puntualizzazione. L'eventuale ingresso dell'erede nella società non configura una vera vicenda successoria. Con la morte, infatti, non è la partecipazione che si trasmette agli eredi, bensì il credito alla liquidazione.
Pertanto, l'ingresso dell'erede è frutto di un negozio inter vivos concluso con i soci superstiti, nel quale si verifica la compensazione tra le somme dovute a titolo di conferimento e il credito alla liquidazione.

Ora, alla luce della caduta in comunione ereditaria del credito alla liquidazione, malgrado la comoda divisibilità del credito, l'erede è titolare di esso solo pro quota e, secondo le regole generali della divisione ereditaria, ogni atto di disposizione di beni in costanza di comunione ereditaria si considera effettuato “all'esito divisionale”. In buona sostanza, il coerede dispone di un bene sotto la condizione sospensiva che esso gli venga assegnato in sede di divisione.

Per questo, mi chiedo se sia possibile realizzare il subingresso direttamente mediante compensazione o se non sia necessario, in mancanza di un consenso unanime, uno stralcio divisionale relativo alle sole somme ottenute allo scopo di liquidare il credito agli eredi. Fatto ciò, l'erede potrebbe utilizzare la somma percepita per entrare in società.

Le norme in tema di comunione prevedono che gli atti di disposizione dei beni in comproprietà richiedano il consenso di tutti i partecipanti (art. 1108, comma 3, c.c.). Tuttavia, l'imposizione della regola dell'unanimità potrebbe penalizzare ingiustamente l'interesse della società e il diritto dell'erede a farne parte.
Si dia il caso di una società composta di soli due soci. Se uno di essi morisse e l'ingresso di un erede richiedesse l'unanimità dei partecipanti alla comunione ereditaria, la società si troverebbe a rischio di scioglimento (per mancanza della pluralità dei soci) per una mera presa di posizione degli altri eredi.

Pertanto, di fronte ad una scelta a tal punto paralizzante, la salvaguardia delle dinamiche societarie impone una soluzione più permissiva.

Ferma restando la caduta in comunione ereditaria, la dottrina, ancor prima della pronuncia di legittimità del 2007, ha ritenuto che nella sua fase esecutiva (cioè quando si realizza il subentro dell'erede e la compensazione tra il credito derivante dalla liquidazione e il debito da conferimento) il credito si scinda, in ossequio al principio del favor societatis, e che ciascun erede possa “subentrare” autonomamente nel rapporto sociale.

Al medesimo risultato giungono anche le Sezioni Unite, nel momento in cui escludono la necessità del litisconsorzio di tutti i coeredi nell'azione promossa contro il debitore, sia per l'intero credito sia per la parte corrispondente alla quota di spettanza dell'erede.

In sostanza, se uno degli eredi chiede il pagamento della propria quota di liquidazione (per poi subentrare la società), non è necessario a tal fine l'intervento di tutti i coeredi. Malgrado ciò, il pagamento effettuato dal debitore, anche tramite compensazione, non ha effetti nei rapporti interni tra i coeredi, che saranno pertanto definiti in sede divisoria.